Mentre sto lavorando al laptop su un programma di coaching per questo 2022, il mio smartphone mi avvisa che ho un messaggio su Messenger.
Sto lavorando con una certa libertà e quindi lo leggo.
È un’amica con la quale siamo abituati a scherzare e inviarci post ironici.
“E’ tua la foto?” dice il messaggio seguito da un link.
Non apro mai link che arrivano tramite social a meno che gli indirizzi siano chiaramente riconoscibili o che sia sicuro di ciò che andrò a trovare una volta aperto.
Questa volta invece l’ho fatto, ho cliccato…
E siccome ero intento a fare altro, quando lo smartphone mi ha avvisato che Facebook chiedeva di ripetere nuovamente l’accesso per visualizzare il contenuto del link, senza dare alcun peso alla cosa, ho acconsentito a che il mio indirizzo e-mail e la password venissero reinseriti (d’altronde mi è bastato un doppio click: li ho salvati su Google…).
Fatto e finito! Sono caduto nella trappola.
Il virus è entrato nel mio account e – oltre ad “infettarlo” – ha cominciato a spargersi verso alcuni dei miei contatti.
Sebbene sia riuscito a contenere il danno – mio e dei miei contatti – per un bel po’ di tempo durante la giornata mi è rimasta una marcata sensazione di fastidio, un gusto amaro.
Mi sono sentito vulnerabile, imprudente, anti-smart (non so se si dica così, ma spero renda l’idea), intollerabilmente ingenuo, primitivo anzi paleozoico-digitale.
Ma soprattutto, ed è stata la sensazione più spiacevole, “infetto” e “infettante”.
Certo, il paragone con la realtà vera è improponibile.
La vita vera ci sta mettendo alla prova con virus e contagi di ben altra natura, ma quando ho cercato di ripercorrere gli eventi ascoltando anzitutto le mie sensazioni ed emozioni ho fatto una scoperta interessante.
Nel tardo pomeriggio di una giornata di fine Settembre 2020 – eravamo all’inizio della seconda ondata della pandemia da Covid19 – mentre ero in macchina di ritorno da un workshop ho ricevuto una chiamata da un mio coachee.
Avevamo avuto una sessione di coaching la settimana prima, lui allora aveva appena un po’ di raffreddore, ma con il passare dei giorni quel semplice malanno era diventato qualcosa di più importante e alla fine aveva scoperto di essersi ammalato di Covid.
Ero potenzialmente un contagiato e quindi un possibile diffusore di virus.
Doccia fredda!
Allora non esistevano vaccini, i test erano rari e si potevano effettuare solo presso strutture organizzate.
Ho passato alcuni giorni poco tranquilli isolandomi immediatamente per cercare di contenere il potenziale danno.
L’esito del tampone alla fine è stato negativo, ma posso garantire che prima di riceverlo – con le dovute differenze di intensità – le emozioni e le sensazioni che ho provato erano del tutto simili a quelle che ho provato per il contagio virtuale.
Che cosa unisce un contagio virtuale e un potenziale contagio reale (almeno fino a che un test dimostri il contrario)?
Ho cercato una risposta come coach e ho trovato 3 elementi che mi hanno dato 3 apprendimenti.
Primo elemento: che ci piaccia o no, che abbiamo a che fare con qualcosa di concreto o con qualcosa di immaginario, la cosa più reale con cui abbiamo immediatamente a che fare, il nostro primo interlocutore, sono le nostre emozioni.
Le emozioni sono qualcosa di reale e concreto, bisogna quindi fare in modo che siano trattate in modo reale e concreto con tutto quello che ne consegue.
Allo stesso tempo, se sono qualcosa di reale e concreto, sono anche qualcosa di distinto da me: io non sono la mia rabbia o la mia gioia, io provo rabbia o provo gioia.
Io non sono le mie emozioni, non sono i miei pensieri, posso scegliere o – meglio – imparare a scegliere di non perdermi in essi, di tentare di osservarli, di osservarmi mentre ho a che fare con loro.
E a proposito di perdersi, secondo elemento: i contagi virtuali o potenziali ci stressano, cioè sottopongono il nostro sistema di vita a uno stress “negativo” importante perché ci tengono costantemente (in modo più o meno consapevole) allertati.
Alcuni neuroscienziati che si occupano in particolare di emozioni e stress definiscono la paura come un semplice segnale vuoto, un semplice segnale di allerta che ciascuno riempie di significato a seconda delle circostanze e dei momenti della vita.
Se la vita di un essere umano medio che vive alle nostre latitudini già da tempo è sottoposta a livelli di stress negativo prolungato e costante, questa pandemia che stiamo vivendo ha aumentato in tutti noi – per motivi diversi – il livello di allerta.
Il senso di paura, rabbia e frustrazione serpeggia tra noi e dentro di noi e si trasformano in una specie di rumore di fondo delle nostre esperienze interiori e relazionali.
Essere consapevoli di questo e cercare alternative efficaci ci aiuta ad abbassare il livello di allerta e aumentare il livello di focalizzazione, di capacità di attenzione e di discernimento.
Il virus ha dato il via ad un cambiamento importante.
Terzo elemento: siamo ancora pienamente in quel “fiume di mezzo” che divide le sponde di ciò che era prima della comparsa del virus – e che per alcuni versi non sarà più – e ciò che deve venire ma non c’è ancora.
Siamo cioè in piena transizione.
Il fiume in cui siamo immersi è pieno di rischi e opportunità, è un’acqua inesplorata in cui si combinano e si confondono eccitazione e ansie, sicurezze e incertezza, slanci di energia e profonde frustrazioni.
Il “fiume di mezzo” può essere un’acqua gentile e insidiosa allo stesso tempo, verrebbe voglia di salire su una scialuppa, ma immergersi è l’unica via per essere sicuri di approdare alla riva dei nuovi inizi.
Ci sono alcuni fattori agevolanti che possono fare la differenza riguardo a come possiamo affrontare le acque del “fiume di mezzo”.
Uno di questi è: dare e ricevere supporto.
Il contagio spinge a isolare e isolarsi. Il rischio di sentirsi (o volere essere) soli è più che concreto.
Guardarsi attorno e accorgersi di ciò che possiamo contribuire a fare per sostenere chi è isolato o saper chiedere aiuto in caso siamo o ci sentiamo isolati, cercare alleanze, esplorare relazioni e modalità di interazione gratificanti, … creare tutte le occasioni per isolare il virus e aprire canali di umanità sostiene le nostre difese immunitarie fisiche, mentali e spirituali.
Per avermi aiutato a superare l’impasse del contagio virtuale in cui sono incappato sono particolarmente grato a Matteo e Silvia.
Buona nuotata nel “fiume di mezzo”.