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Mi sono chiesto spesso dove si trovano le “radici” della gioia, dove si radica questa forza potente e misteriosa che rende la vita un’avventura degna di essere vissuta.
Ho capito che la gioia è qualcosa che si scopre, che si rivela, che si coltiva, che è gratuita, che è universale e potente.
La gioia è contagiosa, la gioia è “pericolosa” perché è libera, multiforme, non si inquadra, non si compra non si vende, è gratuita.
Ho capito anche che la sfida più grande di ogni sapere e civiltà è quella di permettere alle persone, a tutte le persone, di farne esperienza e di creare le condizioni con ogni sforzo necessario perché ne possano attingere energia e gustarne la presenza nel profondo.
Sì, perché mi pare che la gioia sia senz’altro un’esperienza esistenziale personale ma che allo stesso tempo possa rivelarsi solo se condivisa, messa in relazione.
Ho la sensazione che la gioia abbia a che fare con il bene inteso come “stare bene”, “fare bene”, “volere il bene mio e dell’altro”,… “tendere al bene ed essere attratti dal bene”.
Mi rendo conto che sto entrando in un campo pieno di insidie e mi fermo su questo confine dove ciascuno è libero di continuare la sua ricerca e trovare, forse più che risposte, le domande più utili.
Provo però a trarre alcune considerazioni da tutto questo.

Gioia come motore dell’evoluzione personale
La gioia è un modo di stare nel mondo: aperti, curiosi, capaci di meraviglia.
Quando è esperienza autentica, diventa la condizione interiore che rende possibile ogni apprendimento, perché il cervello — come ci ricordano le neuroscienze — impara davvero solo quando è in uno stato emotivo positivo.
Dove c’è paura o giudizio, ci si difende; dove c’è fiducia e piacere, si esplora.
Nel coaching questa dimensione è essenziale.
Le persone non cambiano perché qualcuno le convince, ma perché ritrovano dentro di sé un senso di possibilità.
E quel senso nasce dalla gioia: la gioia di comprendere, di sperimentare, di riuscire, di riconoscersi capaci di evolvere.
Ogni volta che una persona scopre di poter imparare qualcosa di nuovo su di sé, accede a uno spazio di libertà che apre le porte alla gioia.
La gioia non è solo emozione o una competenza, è una forza evolutiva.
Si allena scegliendo di non ridurre la vita a un elenco di problemi da risolvere, ma a un campo di esperienze da vivere consapevolmente.
Si allena imparando a vedere nell’errore un’occasione, nel limite una soglia, nella difficoltà un terreno fertile per crescere.
È l’antidoto alla rassegnazione e all’automatismo, le due forze che più minano l’evoluzione personale.

Gioia e performance professionale
Anche nel lavoro la gioia è una leva strategica.
Le aziende che la comprendono sanno che non si tratta solo di “felicità aziendale” o di eventi motivazionali, ma di creare contesti dove le persone possano provare soddisfazione per ciò che fanno, sentirsi parte di un progetto e percepire senso. Creare le condizioni perché chi lavora possa avere accesso alla gioia di vivere, di essere vivo, nasce da questo allineamento profondo tra sé, il ruolo e la direzione comune.
Un leader, un manager, un professionista che vive la gioia nel proprio lavoro non è ingenuo né idealista: è lucido.
Sa che la motivazione non si può delegare e che la qualità dei risultati dipende dal grado di vitalità che porta nelle proprie azioni quotidiane.
Dove c’è gioia, c’è presenza. Dove c’è presenza, c’è efficacia.

Gioia come scelta consapevole
Coltivare la gioia di vivere significa allenare la capacità di restare nel flusso dell’esperienza, di accorgersi di ciò che funziona e di nutrire gratitudine per ciò che si è, anche mentre si tende verso ciò che si desidera diventare.
È una postura esistenziale che unisce leggerezza e profondità, concretezza e visione.
Nella mia esperienza di coaching, ogni percorso autentico di crescita — personale o professionale — si radica in questo: nella possibilità di tornare a sentire la vita come un movimento pieno, che vale la pena abitare.
Perché la gioia non è un punto d’arrivo. È la condizione che rende il viaggio possibile.

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